“Le figure professionali a sostegno della disabilità visiva” – Tesi di laurea di una volontaria del Servizio Civile

Presentazione
Prima di illustrare il mio lavoro, vorrei presentarmi e spiegare le motivazioni che mi hanno spinto a
stendere un elaborato intitolato “Le figure professionali a sostegno della disabilità visiva” nella
mia tesi di laurea magistrale in Scienze Pedagogiche.
Mi chiamo Fiorini Giada, sono un’educatrice e pedagogista, nata a Frosinone il 29/01/1995 e
residente a Veroli.
Ho svolto il servizio civile Ad personam nel 2016 e, terminato tale progetto, sono diventata
volontaria presso l’U.N.I.Vo.C di Frosinone, ricoprendo tale ruolo tutt’oggi.
Proprio grazie all’osservazione di un mondo a me sconosciuto, ma soprattutto all’affetto ed al
legame instaurato con alcune persone non vedenti, ho capito come sia possibile sognare anche al
buio. Ho imparato che spesso, noi vedenti, siamo ciechi di fronte a tante cose, mentre il disabile
visivo riesce ad andare oltre, guardando tramite un organo più importante, il cuore.
La frequentazione di questo mondo mi ha spinto ad approfondire alcune tematiche, quali appunto
gli ausili specifici utilizzati dai non vedenti, e l’importanza delle figure professionali come sostegno
valido alla loro autonomia ed indipendenza.
Ci tenevo inoltre, a ringraziare Rita Iannarilli per aver mostrato interesse per il mio lavoro ed
avermi spinto a contattare Claudio Cola, il quale ringrazio allo stesso modo per il tempo a me
dedicato e per aver reso possibile tale pubblicazione.
Procederò ora all’esposizione del mio lavoro.
Scopo di tale elaborato è quello di sottolineare l’importanza e la necessità dell’indipendenza
personale del disabile visivo, sia esso un bambino o un adulto. Maria Montessori infatti affermava:
“Non si può essere liberi se non si è indipendenti”, in quanto libertà significa proprio poter disporre
di sé, far affidamento alle proprie capacità ed abilità, senza dover essere dipendenti da altri.
Ecco che conquistare la propria indipendenza significa “arrivare a sentirsi capaci di fare da sé, di
compiere un’azione utile, importante, senza l’aiuto di altri, potendo risolvere da soli i propri
problemi e riuscire ad un fine difficile col proprio sforzo”
.
Raggiungere l’indipendenza implica quindi conquistare anche la propria autonomia, anche se per un disabile visivo non è sempre facile. Occorrono ausili specifici da poter utilizzare e figure
professionali che possano supportarlo e condurlo alla piena integrazione sociale; ma per poter
raggiungere tale obiettivo, bisogna anche sapere cosa sia la disabilità visiva e cosa essa implica nel
non vedente.
Ecco che, nella stesura dell’elaborato, nel primo capitolo, ho voluto riportare la definizione di
disabilità visiva, termine con il quale si indica un tipo particolare di disabilità in cui il deficit
consiste nella minorazione del senso della vista, minorazione che, in relazione alla sua entità, può
essere caratterizzata attraverso l’utilizzo di termini specifici come “cecità” o “ipovisione”.
Ho poi delineato le cause di insorgenza di tale deficit, dividendo la disabilità in congenita quando la
vista del soggetto è ridotta o mancante sin dalla nascita, ed acquisita quando il deficit insorge
nell’infanzia o in seguito, a causa di malattie degenerative, traumi nel sistema visivo o altre
patologie come infezioni. Mi sono soffermata ulteriormente su alcune malattie degli occhi come la
cataratta, il glaucoma, la degenerazione maculare senile e la retinopatia diabetica ed ho sottolineato
l’importanza della prevenzione, sostenuta anche dalla Giornata Mondiale della Vista.
Ho sottolineato l’importanza del cane guida, valido ausilio per l’autonomia e la mobilità per “chi
non ha luce nel mondo quotidiano”
e descritto il decalogo che occorre osservare in sua presenza; il
cane guida è “un’estensione del non vedente stesso, un prolungamento del corpo. E’ chiamato a
sostituire gli occhi della persona e pertanto diventa la sua chiave di accesso al mondo”
.
Infine, ho posto l’attenzione sulla possibilità di compensazione del deficit visivo attraverso le altre
facoltà percettive, ovvero l’udito, il senso cinestesico e l’organo dell’equilibrio, il tatto, il gusto e
l’olfatto. Per un non vedente affinare tali sensi rappresenta un’ottima possibilità di compensazione
per conoscere il mondo circostante, anche in mancanza della vista. Essa è certamente il mezzo più
rapido, abitualmente considerato anche il più efficace, per conoscere il mondo che ci circonda e per
guidare le nostre azioni e per questo motivo, finché abbiamo la possibilità di vedere, siamo poco
inclini ad usare pienamente le altre facoltà percettive, quindi gli altri nostri sensi non saranno mai
potenziati al pari di quelli di un disabile visivo.
Nel secondo capitolo, invece, ho voluto delineare le tappe dello sviluppo del bambino con deficit
visivo e la necessità, da parte della famiglia, di “elaborare il lutto”, in quanto i genitori avevano
basato sogni e progetti sull’idea di un bambino sano e di uno sviluppo normale ed ora trovano
sconvolto il loro ciclo familiare e devono accettare la condizione del proprio bambino. Si passa così
dallo shock e dal dolore iniziali, ai sensi di colpa e rabbia, fino ad arrivare ad una fase di
“trattativa”, ovvero accettazione del problema ed elaborazione di un progetto.
Si deve anche tener conto che la dilazione di alcune tappe evolutive è ineliminabile, poiché solo con
ritmi più lenti, connaturati alle caratteristiche dei sensi residui, il bambino potrà acquisire fiducia e
sicurezza. Egli presenterà alcuni ritardi psico-motori, difficoltà nell’alimentazione, difficoltà nel
linguaggio e nello sviluppo affettivo.
Spesso sviluppa dei tic, i cosiddetti “ciechismi”, come il ritmico dondolio, perché preferisce
dondolarsi avanti ed indietro piuttosto che esplorare l’ignoto. Ciò che lo caratterizza è la “riluttanza
all’azione” che consiste “in una caratteristica inerzia motoria riconducibile alla mancata
possibilità di esplorare autonomamente il mondo circostante”
.
Per quanto concerne il linguaggio, invece, il bambino tende ad utilizzare un linguaggio imitativo,
caratterizzato da ripetizioni di frasi, che gli permette di mantenere il contatto comunicativo con
l’interlocutore. I bambini non vedenti mostrano anche difficoltà nello sviluppo sociale, nelle regole
dello scambio comunicativo, sono meno espressivi ed i loro comportamenti interattivi sono carenti,
quindi spesso vengono isolati dai coetanei.
E’ importante che vi sia sempre un lavoro educativo di stimolazione sensoriale costante, la
stimolazione della curiosità verso l’ambiente circostante e la motivazione delle proibizioni.
Indispensabile anche l’educazione della mano che ne permette l’uso autonomo come tramite di
percezione, quindi è fondamentale fornire al bambino giochi e stimoli piacevoli al tatto.
Ho poi sottolineato l’importanza dell’integrazione scolastica dei minorati visivi ed ho delineato il
percorso che l’ha resa effettiva. A partire dal Regio Decreto n.3126 del 1923, che prevedeva per
ciechi e sordi l’ingresso nelle scuole speciali o nelle classi differenziali, si è arrivati alla legge 118
del 1971, che formalizzava l’inserimento nelle classi comuni dei disabili, senza però abrogare le
classi speciali. Si passò poi alla promulgazione della Legge del 4 agosto 1977, n. 517, che venne
considerata l’atto legislativo più importante sul piano dell’integrazione, in quanto aboliva le classi
differenziali e le scuole speciali ed apriva le porte della scuola a tutti.
Non potevo poi non citare la legge 104 del 92, che garantisce alle persone disabili il diritto
all’educazione in ogni ordine e grado di scuola, università compresa e delinea le modalità operative
da mettere in atto, attraverso tre documenti ufficiali: la Diagnosi Funzionale (DF), il Profilo
Dinamico Funzionale (PDF) ed il Piano Educativo Individualizzato (PEI).
Per favorire la piena integrazione scolastica è opportuno che la didattica sia differenziata, che il
disabile partecipi attivamente a tutte le attività e che vi sia collaborazione ed aiuto reciproco in
classe.
Essendo io una pedagogista, ho concluso il secondo capitolo parlando della rivoluzione pedagogica
di Augusto Romagnoli, le cui intuizioni sono valide tutt’oggi per progettare percorsi inclusivi a
scuola. Egli auspicava che tutti i ragazzi ciechi potessero essere educati insieme ai vedenti e che tra
loro vi fosse coeducazione, sottolineava la specificità della minorazione visiva e la necessità di non
assumere atteggiamenti di discredito e sottovalutazione delle difficoltà.
Romagnoli, allo stesso modo della Montessori, riteneva che non si può essere liberi se non si è
indipendenti ed autonomi; per questo la pedagogia deve guardare con atteggiamento critico e
problematizzante alle strategie necessarie per un’effettiva emancipazione che porti ad una concreta
e reale attuazione delle pari opportunità anche per i differenti.
Nell’ultimo capitolo infine ho descritto quali sono le figure professionali che possono supportare il
disabile visivo verso la propria autonomia.
In primis, l’educatore tiflologico o Typhlology Skilled Educator, che secondo Condidorio “non
lotta per ridare la vista al cieco, ma combatte affinché ogni persona cieca sia messa nella
condizione di poter guardare il mondo attraverso le proprie abilità”.

Egli si occupa della disabilità visiva nella sua forma assoluta o parziale, al fine di migliorare la
situazione sociale e culturale attraverso la didattica, l’informatica e la tecnica, affianca i disabili
visivi nell’utilizzo di ausili specifici, e delinea itinerari, strategie e soluzioni volte alla risoluzione
dei problemi. Il tiflologo dovrebbe “trarre fuori” dal bambino cieco o ipovedente tutte le abilità, le
capacità, le competenze che gli permettono di “fare da sé”, di essere attivo e propositivo, di
partecipare e di contribuire alla vita della collettività. Egli consente ad un bambino/ragazzo cieco di
stare a scuola, di starci bene e di apprendere. Si serve di uno strumento di programmazione detto
PRO.MO, crea un ambiente “su misura” per il bambino e lo affianca nell’utilizzo di ausili
tiflodidattici come il Braille, il casellario Romagnoli, il cubaritmo, le mappe a rilievo ecc.
Ho poi delineato la figura del Tiflopedagogista, che rappresenta un operatore altamente
specializzato, formatosi presso l’I.Ri.Fo.R attraverso un master di 2° livello. Egli si colloca al
centro di una rete di competenze tra le istituzioni e le agenzie educative che ruotano attorno al
disabile visivo, e svolge attività di coordinamento per facilitarne il miglior funzionamento. In
sostanza, deve svolgere la funzione di sollecitazione e di coordinamento tra le molte competenze
disponibili sul territorio, garantendo e promuovendo l’informazione reciproca e la ricerca
scientifica, valorizzando la complementarità dei ruoli e promuovendo metodologie di lavoro
condivise.
Parlare dell’assistente all’orientamento, alla mobilità e all’autonomia personale era d’obbligo, in
quanto egli opera nell’ambito della prevenzione, cura e riabilitazione funzionale dei soggetti affetti
da patologie visive degenerative e permanenti ed utilizzando attività espressive, prassico-operative,
manuali-rappresentative, ludiche e della vita quotidiana, insegna al non vedente a gestire i
movimenti e gli spostamenti nello spazio in modo autonomo.
Per concludere il lavoro ho posto l’attenzione alla figura dell’ad personam, dal momento in cui io
stessa ho svolto questo ruolo. Nonostante essa non sia una figura professionale, si tratta di un
accompagnatore personale per il non vedente e forse è l’ausilio più utilizzato. Egli deve fornire
confort e sicurezza in quanto rappresenta “gli occhi” della persona e ciò permette l’instaurarsi di un
rapporto di fiducia e stima reciproca.
Il lavoro svolto essenzialmente tratta di due concetti: “autonomia” ed “integrazione”, in quanto sono
questi due gli elementi essenziali che occorrono per far sì che un disabile visivo, cieco o ipovedente
che sia, possa sentirsi pienamente realizzato nonostante la disabilità.
Solo essendo autonomo e ben integrato, il disabile visivo può sentirsi parte attiva a scuola, in
famiglia, a lavoro e nella società civile in cui è inserito; solo così può evitare di scivolare in
situazioni di isolamento ed emarginazione e vivere in modo soddisfacente la propria vita.
Il cammino che porta a tali condizioni non è sempre facile, ma sono stati fatti passi da gigante, sul
piano scolastico, sul piano lavorativo, sul piano delle figure professionali, sul piano tecnologico e
per la vita di tutti i giorni.
Basti pensare che a scuola, l’alunno disabile visivo può essere affiancato da un tiflodidatta che
utilizza strategie per lui adeguate, può accedere ad una didattica differenziata in base alle proprie
esigenze e può utilizzare ausili tiflodidattici come la dattilobraille, la stampante Braille, il
cubaritmo, il cubo Romagnoli, il piano di gomma, le mappe tattili a rilievo ecc, che gli facilitano il
processo di apprendimento, consentendogli di arrivare agli stessi obiettivi dell’intera classe, seppure
con strumenti e metodologie differenti.
Questo non è certo di poco conto, se pensiamo che nel lontano 1923, il Regio Decreto n.3126,
prevedeva per alunni ciechi e sordi, l’ingresso nelle scuole speciali e nelle classi differenziali. Non
si poteva certo parlare di integrazione scolastica, mentre oggi, per fortuna, la scuola è aperta a tutti e
privilegia non l’uniformità, bensì le differenze, attraverso una didattica integrata/differenziata.
La svolta non si presenta solamente a scuola, in quanto il non vedente può usufruire di ausili
specifici anche nella quotidianità. Pensiamo ai computer e ai telefoni cellulari con la sintesi vocale,
alle sveglie e alle bilance parlanti, alle app tecnologiche che attraverso lo screen reader leggono
cosa è scritto su un foglio e così via; sono tutti supporti che facilitano la vita di tutti i giorni,
rendendo meno difficoltose tutte le situazioni che possono crearsi, come sapere semplicemente chi
sta chiamando sul cellulare, o sapere che ore sono.
Possono sembrare attività banali, ma per chi vive al buio è un passo fondamentale per essere
autonomi nelle piccole cose. Pensiamo ancor di più all’uso del bastone bianco o del cane guida,
ausili che permettono al disabile visivo di essere libero negli spostamenti e nell’orientamento.
Sono tutti passi da gigante che consentono alla persona di non sentirsi smarrito in un mondo in cui
le informazioni provenienti sono essenzialmente di tipo visivo. La possibilità di compensare la
mancanza della vista, sia con il rafforzamento degli altri sensi percettivi, sia con l’utilizzo degli
ausili specifici, rende meno traumatica la vita di chi il mondo non lo vede, o lo vede sfocato.
Ed, a questo punto, come si può non evidenziare l’importanza delle figure professionali a sostegno
della disabilità visiva?
Il cieco o l’ipovedente, non hanno un pacchetto delle istruzioni per imparare a vivere al buio, e
tantomeno da soli possono essere in grado di acquisire strategie e modalità che gli consentano di
vivere al meglio la loro condizione. Grazie alla loro forza di volontà e motivazione, ed al sostegno e
supporto di personale altamente specializzato, di cui si è parlato in questo elaborato, è possibile che
essi superino la situazione di handicap in cui si trovano e riescano a vivere una vita degna di essere
vissuta, nonostante i limiti e le difficoltà che questa disabilità impone.
Si può sognare anche al buio, solo che noi vedenti, spesso, non riusciamo a capirlo o a crederlo
possibile. Io, che è possibile lo so, e senza quell’esperienza che nel 2016 mi ha aperto le porte di
questo mondo, non l’avrei mai saputo.

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